Ugo Marano

Per Ugo Marano l’arte, oltre a essere lavoro quotidiano, esercizio costante del disegno e approfondimento delle tecniche e dei materiali, doveva sostenere, ancor meglio, orientare un’azione, un comportamento.
In questa direzione, a mio avviso, si muoveva già quella serie di sculture, genericamente definite come Arrugginibili, che l’artista realizzava ed esponeva a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.


Sono gli anni della mostra di Amalfi, allestita nel 1968 nei vicoli del centro storico, negli stessi giorni della mostra “Arte povera più azioni povere” curata da Germano Celant presso gli Antichi Arsenali della Repubblica; di quella di Positano preceduta da un rocambolesco trasporto delle opere via mare; e ancora delle mostre romane, ospitate nel 1971 presso lo Studio d’arte SM13 e nel 1972 presso la galleria Schneider, quest’ultima presentata a Filiberto Menna che ne esaltava la componente organica.
Si trattava di un gruppo di opere ottenute tagliando e piegando delle semplicissime lastre di metallo, di diverse dimensioni, aprendole e agitandole verso la spazio, inserendole cioè nel flusso del reale, confrontandole con il corrosivo tempo della quotidianità. Queste accoglievano e riflettevano aspetti propri delle ricerche plastiche di quegli anni, soprattutto in ambito minimale e concettuale, da Tony a David Smith, da Anthony Caro a Richard Serra, che nel 1966 realizzava a Roma la sua prima mostra italiana. Tuttavia Marano si teneva ben lontano dai processi di una fredda e calcolata dimensione progettuale, per esaltare il potere liberatorio del gesto, per mettere in relazione la nascita della forma, il suo sviluppo nello spazio, all’azione.
Un tentativo evidentemente in linea con il clima impegnato di quegli anni, con la possibilità - avrebbe sostenuto Germano Celant - «di proiettare e recuperare il represso, la necessità di costruire oggetti in cui riflettersi e focalizzare il rapporto osmotico tra pensiero e materia». 
I tagli di Marano, del resto, non si sottraevano - suggeriva Massimo Bignardi in occasione della mostra allestita nel 2014 al Museo Frac di Baronissi - alla sua responsabilità di mostrarsi, di percepire lo spazio e di materializzarsi nell’oggetto, anzi preannunciavano una vocazione ambientale, facendo emergere nel tempo una dimensione civica dell’arte. 
In tal senso lo stesso artista, illustrando quei corpi ‘danzanti’ nella breve introduzione al catalogo realizzato in occasione dell’esposizione allestita nel 1974 presso lo spazio Interni di Salerno, scrive di un lavoro eseguito sì tenendo conto della dimensione del mare, dei prati, delle città, della natura, ma che tiene, soprattutto, conto del gesto, dell’azione, della volontà «di liberazione della materia metallica, mediante tagli necessari, che danno vita alla forma, che viene a crearsi quasi per necessità». 
Così il foglio di lamiera metallica diventa scultura, forma, corpo capace di occupare un posto nello spazio, sottoponendosi all’azione erosiva degli agenti atmosferici che continuano «la creazione fino a restituire la materia alla natura e lasciando così solamente il ricordo della forma primigenia ch’è stata tale solamente nell’attimo del primo impatto creativo».

Pasquale Ruocco, Curatore della mostra